Dario Galimberti

La ruggine del tempo



1931, Capodanno
I
Con passo spedito, il delegato di polizia Ezechiele Beretta stava andando all’ospedale Civico di Lugano. L’amico dottor Aldo Lurati gli aveva comunicato, al telefono, che una signora gli doveva rivelare un segreto. A giudicare dall’insistenza di Aldo, il terzo segreto di Fátima, a confronto, non doveva essere un granché. Fu titubante fino all’ultimo e solo quando il medico gli parlò del Château de la Musique, la sua curiosità ebbe il sopravvento.
Nel 1907 aveva avuto la fortuna di assistere, nella sala dei concerti del castello di Trevano, alla prima dell’opera lirica Errisiñola. I sogni della vita di Louis Lombard. In quegli anni il giovane Beretta era avido di stimoli e non si lasciava sfuggire le poche opportunità che gli capitavano. Di quel concerto e di quella serata conservava un ricordo indelebile.
Aldo Lurati lo accompagnò fino all’ingresso della camera: primo piano, reparto geriatria.
«Non mi avevi detto che era la Liside».
«Non ha voluto lei… Zechi, io vado, stasera festeggiamo in famiglia. Tu che fai?».
«Lavoro».
«Lavori? Per piacere… Se vuoi venire da noi sei il benvenuto».
Il Beretta ricambiò la gentilezza dell’amico con un sorriso e si avvicinò al letto. La donna, in posizione fetale, dava la schiena all’ingresso e non lo sentì entrare.
«Liside… Liside…».
Si girò a fatica finché non fu supina. I suoi movimenti erano lenti e incerti. Aveva i capelli argentei scompigliati dal dormiveglia. Ogni centimetro di pelle non celato dalle lenzuola e dal camice bianco appariva incartapecorito e arido. Rughe profonde, ombrose, tracciavano solchi sulla cute che sembravano indicare, come gli anelli annuali nei tronchi, il tempo della vita.
«Ezechiele, ce ne hai messo di tempo per arrivare» disse la donna con voce roca e tremolante.
«Come stai Liside?».
«Cume na vegia che la vet mia l’ura da crepá».
«Ma dai…».
«E tu invece? Passano gli anni e hai sempre quell’espressione malinconica che avevi da bambino. Quello sguardo triste… come se fossi oppresso dal peso di segreti solo a te noti».
Il delegato fece una smorfietta, prese una sedia e le si sedette accanto.
Liside Torricelli abitava al Sassello, il malfamato quartiere di Lugano ubicato a ridosso della collina di San Lorenzo e prospiciente via Pessia e via Nassa. Il suo appartamento – tre stanze servite da un ballatoio – si trovava al primo piano di un caseggiato in via Pretorio Vecchio. La famiglia Beretta abitava al secondo piano. Il delegato conosceva da sempre quella donna, amica di famiglia, madrina e soprattutto, in assenza della mamma, figura di riferimento per i momenti in solitudine.
«Ti devo informare di un crimine efferato, così che tu possa arrestare il colpevole e imprigionarlo…».
Sbarrando gli occhi Ezechiele fissò la donna e immobile attese paziente che concludesse ciò che a fatica gli stava narrando.
«… finché ul diaul a la tira giò a l’inferno».
«Di che si tratta, Liside?».
La vecchia iniziò il suo racconto accompagnandolo con le braccia stanche che, per qualche istante, fendettero l’aria per poi precipitare sulle lenzuola alla ricerca di un appoggio. «Vera von Derwies non è caduta da cavallo come tutti credono, ma è stata disarcionata apposta con l’intento di ucciderla…».
In Beretta quel nome accese vaghi ricordi che a fatica collocò nel tempo. «Stai parlando della figlia del barone von Derwies?».
La vecchia annuì.
«E perché dici che è stata uccisa?».
La donna si fece cupa, le rughe sul suo volto scheletrico si tesero tanto da farlo somigliare a una maschera funeraria, addolcita nell’espressione solo da due occhi compassionevoli di un azzurro opaco. «Ho le prove…».
Le guance del delegato si piegarono in un accenno di sorriso. Voleva bene alla Liside, per lui era come una zia, di quelle a cui si confessano le cose inenarrabili alle mamme. Attese che si riprendesse da quel momento d’inquietudine e, senza cambiare il modo con cui si rivolgeva a lei da sempre, la sollecitò con cipiglio a spiegarsi meglio. «Allora? Di quali prove stai parlando?».
«Ul cügiarin d’argent».
«Il cucchiaino d’argento?».
«Sì sì. Un pezzo dell’argenteria che lucidavo tutti i giorni per ul sciur Baron».
«E allora?».
«E allora… Allora l’ho trovato vicino all’ingresso delle grotte di tufo il giorno dopo il fattaccio. L’eva lì in mezz a la puciciaca».
Ezechiele sapeva che la Liside non eccelleva per chiarezza espressiva. La donna dava per scontato che se una cosa era evidente a lei, doveva esserlo anche per i suoi interlocutori. Armato di pazienza e attento a porre le domande giuste continuò il dialogo: «Lo avevano rubato?».
«Ta ga metü a capila…».
«E quando?».
«Il giorno del Signore, innanzi l’alba. La mia Vera invece è morta il primo giugno, quel mercoledì non l’ho mai dimenticato…».
«Vera era stata trovata vicino alle grotte?».
La donna, con gli occhi chiusi, non riuscì a trattenere le lacrime e mosse la testa in segno di affermazione. Il delegato capì la congettura della vecchia amica: un oggetto facente parte di refurtiva fresca, vicino al luogo dell’incidente, non poteva essere una semplice coincidenza. La Liside pareva certa che la povera Vera avesse incontrato il ladro, rifugiatosi nella grotta in attesa dell’oscurità, e questi, colto in flagrante, doveva averla aggredita disarcionandola da cavallo.
«Hai parlato con qualcuno del cucchiaino e dei tuoi sospetti?».
«Ma sì… Con quel bambela d’un Pin Francun. Come usciere al var nagot».
«E lui, cos’ha fatto?».
«Niente. Il giorno dopo hanno trovato anche ul sciur Baron morto nel lago e tutto finì».
Quel breve sforzo l’aveva sfiancata. Il suo corpo, se non per il tenue movimento del respiro, pareva privo di vita. Ezechiele le prese una mano tra le sue e, accennando un sorriso, la guardò con quella premura che si prova per una persona che ha contato parecchio per la propria vita. La povera Liside gli aveva narrato, come fosse ieri, un fatto avvenuto nel 1881: cinquant’anni prima. Un episodio di cui aveva dato testimonianza, forse ritenuta insignificante, finita poi nel nulla a causa degli eventi susseguitisi nel giro di pochi giorni.
Dopo una decina d’anni di lavoro nelle cucine del barone Pavel von Derwies, la donna si era affezionata alla nobile famiglia e a quella giovinetta morta in modo così tragico. Il tempo pareva non avesse assopito tanto affetto e il desiderio di giustizia. E ora, forse perché sentiva vicina la sua fine, voleva passare quest’informazione a qualcuno che ne facesse buon uso.
Piano piano iniziò a lasciargli la mano e ad alzarsi. La vedeva tranquilla, sembrava addormentata e da lì a poco se ne sarebbe andato lasciandola riposare. Una debole pressione sulla mano lo trattenne. La donna lo fissò con gli occhietti spenti e, sollevando a fatica l’altra mano, indicò con l’indice ossuto e tremolante il cassetto del comodino.
«Cosa vuoi, Liside?» chiese il Beretta mentre il dito se ne stava a mezz’aria.
L’indice vibrò di nuovo puntando il tiretto, e con la mano destra il delegato lo aprì.
«Il panno viola».
Assieme a qualche fazzoletto e a un orologio a cipolla, c’era un pezzo di tessuto talare viola piegato per bene. Ezechiele lo prese, lo distese sul ripiano e lo spiegò. Un cucchiaino, che ai suoi occhi pareva d’oro, brillava sul panno scuro. Lo sollevò con prudenza e l’osservò da vicino. La parte concava era decorata con l’inconfondibile sagoma della cattedrale di San Basilio a Mosca. Il manico, un sottile tronco di cono lavorato per un terzo a spirale, terminava con un pomolo conico e una punta. Un oggetto di pregio e di indubbia qualità orafa, anche per un inesperto come lui.
«Ecco la prova. Promettimi che scoprirai l’assassino».
«Perché non l’hai restituito?» chiese il delegato non riuscendo a trattenere il suo animo da poliziotto.
«Lo feci, ma scompagnato com’era insistettero perché lo tenessi».
Lo sguardo del Beretta passò più volte dal cucchiaino al volto della donna mentre rifletteva su quanto gli aveva appena richiesto.
«Ezechiele, promettimi che scoprirai l’assassino» fece di nuovo la Liside con insistenza.
Quando gli domandavano di fare promesse che non era sicuro di poter mantenere, il delegato si disarmava. A esigerle erano sempre persone affrante, che avevano subito un qualche torto o peggio ancora, e vedevano in lui una sorta di salvatore capace di alleviare il dolore. Davanti a tanta insistenza, che spesso si tramutava in supplica, diventava arrendevole e a volte avrebbe voluto anche accontentarli, magari incrociando di nascosto le dita così da rendere vana ogni promessa.
Con la Liside non poté esimersi. Avrebbe dato la sua parola, per poi riscattarla da lì a qualche giorno dopo aver tentato l’impossibile e averle spiegato l’irragionevolezza di tale richiesta a distanza di cinquant’anni.